Sentenza diffamazione



Orma i social sono divenuti parte integrante della nostra quotidianità, un luogo virtuale dove esprimiamo opinioni ed emozioni. Sempre più spesso però le persone, sentendosi riparate dallo schermo del cellulare o del pc, danno sfogo alla propria rabbia, frustrazione e invidia, e fanno commenti diffamatori e menzogneri contro altre persone, non rendendosi conto di cosa potrebbero provocare in chi legge. 

Per evitare conseguenze, molti fanno commenti o insultano in modo sibillino, senza fare direttamente il nome e cognome della persona a cui si riferiscono, descrivendola solo con determinati particolari fisici o di altra natura, che possa renderla velatamente riconoscibile. Facendo questo in molti pensano di restare impuniti: ma non è così, e ciò è confermato anche dalla recentissima Sentenza della Cassazione Penale n. 10762/2022. 

I fatti sono i seguenti: due donne, amiche e colleghe, avevano cominciato a fare commenti sgradevoli verso una collega affetta da nanismo, appellandola “nana” e denigrandola. Il tutto pensando che non potesse essere loro imputato nulla, in quanto non avevano mai fatto esplicitamente il nome della persona oggetto della loro condotta diffamatoria. Convenute in giudizio, venivano condannate in primo grado alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni, condanna mitigata in secondo grado. 

Le condannate ricorrevano in Cassazione, adducendo, tra i motivi del ricorso, anche la “erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla individuabilità del soggetto offeso quale elemento della fattispecie di cui all'art. 595 c. 3 c.p”. 

Ricordiamo che , per il codice penale, si integra il reato di diffamazione quando: 1c. chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. 2c. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.3c. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. 4c. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Il comma 3 dell’art. 595 c.p. , che ha trovato applicazione alla vicenda in questione, è un aggravante dell’ordinaria diffamazione; ciò in quanto con il mezzo stampa (in questo caso, con i social) si raggiunge una platea indefinita e indefinibile di soggetti: pertanto, le conseguenze della diffamazione e la lesione della reputazione del soggetto leso vengono amplificate, essendo indeterminato il numero di soggetti che potrebbero leggere lo scritto diffamatorio. 

In questo caso, le ricorrenti denunciavano l’erronea applicazione di tale disposizione di legge, in quanto, non essendo stata direttamente nominata nei post sul social, il soggetto leso non era determinabile, quindi non poteva dirsi perfezionata la fattispecie delittuosa avverso la specifica parte offesa. 

La Corte ha però respinto tale ricostruzione, rifacendosi a numerosi orientamenti giurisprudenziali intercorsi negli ultimi anni, che stabiliscono che “non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali. 

Nel caso specifico, le due donne, nei loro commenti denigratori, avevano fatto chiaramente riferimento al nanismo di cui soffriva la persona offesa, oltre che utilizzare un termine dispregiativo per indicare il lavoro di addetta alle pulizie della zia della stessa (“spazzina”). Inoltre, col proseguo della vicenda, avevano sfogato le loro frustrazioni per una lettera ricevuta dall’avvocato che assisteva l’offesa, e, infine, avevano fatto espresso riferimento a un incontro avvenuto con i dirigenti del locale commerciale presso cui tutte le parti lavoravano, al quale l’avvocato della persona denigrata non ha potuto partecipare, indicando così una specifica circostanza temporalmente collocabile.

Questi elementi, “anche in considerazione dello specifico contesto territoriale in cui operavano gli imputati e la persona offesa, […] un centro urbano certo non di grandi dimensioni” consentiva di individuare quale fosse “la destinataria delle offese, quantomeno da parte di coloro che in qualità di dipendenti/collaboratori dell'esercizio (OMISSIS) fossero stati coinvolti a vario titolo nella controversia indicata, oltre che di coloro che come amici o conoscenti o familiari della persona offesa", fossero in grado di riconoscerla.”. 

La sentenza 10762/2022 ha quindi stabilito un importante principio di diritto: ai fini del reato di diffamazione, è sufficiente che vi sia l’indicazione di elementi personali o temporali che identifichino la persona poggetto delle offese, quali il colore della pelle, l’altezza, il peso, il lavoro…portando quindi ad integrare il reato di diffamazione aggravata se compiuta a mezzo social anche senza specifica indicazione del nome. 

Informazioni

Consenso al trattamento dei propri dati personali ai sensi dell'art. 23 del D.LGS 196/2003 *

Privacy Policy